Flavia Franceschini


 


 

 

 

 

 

Il “Sogno d’ombre” di Flavia Franceschini   

 

Il visibile che Flavia Franceschini ci offre nelle sue opere è quanto mai concreto e quanto mai fantasmatico, tale da convincerci della propria realtà con la forza di una penetrante retorica onirica.

Ci fa pensare al commento di Heidegger all’Andenken di Hölderlin, dove il filosofo tedesco approfondiva la questione dell’ombra, collegandola, per mezzo dell’interpretazione hölderliniana di Pindaro (“Sogno di ombre sono gli uomini”), al “pensiero greco del sogno”: limpido, lineare e insieme carico di implicazioni enigmatiche, intriso d’ombra, appunto. Il rapporto che l’artista intrattiene con le sue opere è intensamente gestuale: la sua formazione di scultrice-intagliatrice in legno la induce ben presto a una sorta di corpo a corpo con la materia, con la sua resistenza e la sua solidità, che con l’andar del tempo e la sperimentazione di nuove tecniche e nuovi materiali (gesso, carta, colle, stoffa), che alla “forza di levare” affiancano sempre più spesso la “via di porre”, si trasforma in fluidità e duttilità, stratificazione di memorie e velature. Flavia Franceschini rielabora l’icona simbolista – e in qualche misura tardo-gotico e manierista – del femminile diafano e sognante, misterioso ed esoterico, dominato da una forte tensione spirituale. Mobilità, avvitamento, spiegamento, musicalità sono alcune delle sensazioni – tutte dinamiche – che suscitano nello spettatore le sue sculture, dove ogni corpo-figura genera il suo spazio assoluto, seguendo la traccia della memoria o del sogno, in un intrigante racconto visivo-visionario. Qui fiaba e realtà, storia e immaginazione si annodano ininterrottamente, ed è così che una strana e tenera Maternità e una sorta di autoritratto dell’artista possono dialogare con le figure mitiche della Fenice, di Teti e Melusina, di Orfeo ed Euridice e di Leda, e il duca Borso d’Este può perdersi in pianure dagli accenti fiabeschi che rinviano alla pittura ferrarese del ’400, ma anche a certi paesaggi visionari di Grünewald o Altdorfer, e nello stesso tempo ai desolati paesaggi interiori di Antonioni. Dramma e sogno si snodano reciprocamente, in un contesto in cui l’artista salva i phantasmata della visione ottica, ma li apre all’invisibile, caricandoli di una tensione serpeggiante. In questo modo allegorizza la visibilità come veggenza intrinseca a una figurabilità. Le figure e le forme che costituiscono il suo universo fluttuano in quello che Barthes definirebbe “l’impero del significante”: non sono chiuse in una semanticità codificata, ma vivono la condizione dell’apertura del linguaggio, della sua perenne metamorfosi. Dunque, trapasso della concretezza nel vuoto, e viceversa: risucchio della realtà e coagulo di trasmutazioni. Luogo immaginario di metamorfosi sostanziali, di quel “trasmutabile per tutte guise” che Dante riferisce a sé (Paradiso, V, 99).

La scultura di Flavia Franceschini sembra svilupparsi secondo due tendenze contrarie: da una parte un movimento che coagula i fluidi, solidifica le trasparenze, ispessisce le luci; dall’altra una tensione che porta la materia duttile, salda ma infinitamente sensibile, costellata di tracce, d’impronte leggere, di memorie di corpi, sempre sul punto di dissolversi, di disseminarsi, per rimanifestarsi come visione di un’idea di spazio in cui è fondamentale la reversibilità interno/esterno, concavo/convesso, visibile/invisibile. Uno spazio in cui le figure sembrano scegliere la via della sparizione, della dissoluzione. Questa tendenza a scomparire non si percepisce del resto come una perdita, ma come fonte della loro potenza emozionale. Sono figure che funzionano al meglio nell’esilio, nel gap, nell’interstizio.

 A tutto questo non è estraneo l’interesse di Flavia Franceschini per la fotografia, la quale, ci ricorda Lévinas, “è stata generata dal costante tentativo umano di catturare un’ombra della vita. La storia di questo tentativo è una storia di ombre, di impronte, di sindoni”. Ombre, impronte, sindoni e sudari come quelli delle Diafane presenze, apparizioni lievi e inquietanti, elaborate in gesso, seta, cotone, carta, dove è centrale quella che si potrebbe definire una “poetica dell’impronta”. Come scrive Georges Didi-Huberman, l’impronta è un perfetto esempio di anacronismo, che lega il passato con il presente: ci parla sia del contatto sia della perdita, è memoria delle forme, contatto con la materia, ma anche con l’assenza.

In questo senso particolarmente toccante e suggestiva è la consonanza con una poesia di Giorgio Franceschini, padre dell’artista, scritta nel 1943 e ritrovata da Flavia Franceschini dopo aver già realizzato questa serie di lavori, che ha poi voluto intitolare con frammenti di quella poesia, Mito di Eco e di Narciso: “O creatura diafana, che accorri / dolente ove si smorza la nostra voce, / ti immagino triste se sai/ il suo desiderio di un’ora. / Ti vide, su molli prati, vagare / nell’attesa rassegnata del tramonto / angosciata dalle inutili forme / della tua terra e con te chiese di piangere sulla bellezza. / E strinse il suo corpo con le tue / braccia e si amò in te”.

Il “translucido”, il quasi-invisibile delle tracce che popolano i bassorilievi di Flavia Franceschini, il gioco delle loro trasparenze/opacità, ci fa percepire quell’impercettibile pulviscolo del reale definito da Goethe “la prima squama del corporeo”: nel loro esibire i frammenti di una forma creata e subito perduta, ci dicono che la forma è solo una delle infinite possibilità implicite nella materia. Implicite, dal latino poetico e postclassico in-plicare: letteralmente “ripiegate dentro”, come la materia dentro lo spazio per Leibniz, come le pieghe del Sudario degli amanti, come le ombre della memoria nell’anima di quest’artista.

 

Silvia Pegoraro

 Catalogo della mostra “Ombre della memoria” - Roma - Ulisse Gallery - 2015

 

 

 

 

 

La testa di Casa Buonarroti (con il suo icastico e indimenticabile doppio profilo) protagonista nel 2013 dell’iniziativa espositiva di Casavatore, significativamente denominata Il Rinascimento contro le mafie, è anche al centro della composizione plastica della scultrice ferrarese Flavia Franceschini, che dalle iniziali opere lignee ispirate alle suggestioni di Ceroli o al tuttotondo di Attardi, è passata ad un più versatile modellazione. L’argilla fa aggettare la testa su un supporto di stoffa e in un altro su plexiglass, ricavata con gran senso poetico da una sorta di matrice, calco e ricalco che ulteriormente rilegge e seziona la testa di Antonio Mini trasformata in Leda dal suo maestro per incarico del duca di Ferrara.

“Si può scherzare su Michelangelo?” è la domanda che all’inizio del film Monuments Men un personaggio pone al protagonista (nonchè regista) George Clooney: “ebbene, sì”, e senza dover arrivare alla dissacrazione, ma mantenendone intatti ammirazione e rispetto, come hanno fatto nei decenni scorsi Giulio Paolini o Tano Festa e adesso fa la Franceschini nella sua duplice, diafana, fantasiosa liricheggiante “installazione”, che prende il titolo da un verso dello stesso Michelangelo.

 

Lucio Scardino

Catalogo della mostra: “La Leda perduta: una collezione ferrarese”

Camerini del Principe - Castello Estense - Ferrara -  2014

 

 

 

 

 

 

 

 

Sculture per una poesia: le “Diafane presenze” di Flavia Franceschini

 

              L’idea di modellare delle sculture in funzione o come interpretazione di un testo poetico non ha molti esempi nella storia dell’arte di questi nostri  tempi.

Capita invece che succeda il contrario: poesie dedicate o ispirate a opere d’arte  (chi non ricorda, per stare ai nostri secoli, il Quasimodo della poesia dedicata a Ilaria del Carretto raffigurata da Jacopo della Quercia nella cattedrale di San Martino a Lucca?).

Ebbene, a questa idea che ritengo bellissima e affascinante, si è dedicata Flavia Franceschini interpretando con sue opere una poesia di suo Padre, Giorgio, uomo politico, storico e, in  segreto (lo abbiamo scoperto da poco) poeta raffinato attento ai ritmi bassaniani.

L’occasione per questa performance è stata la inaugurazione di un nuovo luogo di incontri in via Borgo dei Leoni a Ferrara, per la quale era programmata la presenza di una mostra importante.

Le sollecitazioni convinte di un gallerista storico nella Ferrara di questi anni, Paolo Volta e di sua moglie Lucia, hanno convinto Flavia a cimentarsi a condizione di poter lavorare sui temi e sulle suggestioni di versi paterni.  Ha scelto quelli della poesia “Mito di Eco e Narciso” dal libro: “Venti Poesie”.

Quando penso ai costosissimi burattini di Cattelan, alle montagne di sale (finte) di Paladino con i suoi cavallini straniti, mi viene un gran desiderio di guardare una “natura silente” (Giorgio de Chirico) di Morandi, (la sua mostra a Lugano è un capolavoro dove si è annientati dal silenzio di quelle immagini) o di accarezzare, nei miei ambiti, una “Pietà” di Annibale Zucchini e, attraverso gli occhi, ossigenarmi la mente.

Ecco, le sculture di Flavia, e non solo quelle del ciclo “Diafane presenze” che sto commentando, sono ossigeno, ossigeno vero per la mente e qui è il segreto del loro fascino.

I titoli sono versi della poesia ma anche così isolati accendono suggestioni che l’artista ha colto con timore e tremore modellando con tecniche tutte inventate le sue immagini.

“E si amò in te”, “Ti vide su molli prati vagare nell’attesa”, “Chiese di piangere sulla bellezza” nominano alcune opere.  La capacità di dare forma e consistenza affettuosa a quelle parole è stata la scommessa di Flavia.

 La quale con la fantasia concreta che da sempre segna il suo lavoro, fantasia che le consente di modellare il legno come se fosse cera e di atteggiare figure secondo moduli che si rifanno a risonanze liberty liberamente interpretate,  ha affrontato il tema innovando completamente le sue consolidate tecniche operative e ha scoperto la stoffa, il gesso, la seta pura, le resine, il filo di nylon.

La carica segreta dell’affetto e del ricordo che quei versi hanno provocato l’hanno condotta ad una tensione operativa dove la politezza del suo operare si è trasformata e caricata di altre valenze formali: dalla scultura come “levare” che Flavia ha sempre praticato, al bisogno di arrivare in un momento alto della invenzione, all’ ”aggiungere”, all’ ”accumulare” in funzione poetica  come nuova frontiera del suo lavoro.

 

   Carlo Bassi 

 Recensione della mostra : “Diafane presenze” - Sala Alchimia- Ferrara – 2012

 

 

 

 

 

Forse hai sentito, Flavia,

oltre ai bianchi rilievi

sotto le tue dita anche le voci

di queste “diafane presenze “

per questo è vita tanto familiare

è affetto e fiato sottile

più sottile di un capello

 

Lucia Boni

Catalogo della mostra: ”Diafane presenze “ – Sala Alchimia – Ferrara - 2012

 

 

 

 

 

“ Come la neve in via del Carmelino”

 

Se nell’entrare nello studio di Flavia si può dire: è un’officina, è un magazzino, è una fucina, è un crogiuolo, è un laboratorio del pane, è una camera dei salami, non c’è alcuna volontà di sottovalutare il suo lavoro. Queste definizioni solo apparentemente non sono calzanti, certo non corrispondono al luogo nel quale un altro tipo di artista genera le sue opere “creature” e le porge al visitatore con la presunzione di un demiurgo, al contrario, ciascuna similitudine a luoghi di lavoro o di conservazione sottolineano, volta a volta, una specifica modalità di Flavia di accostare l’atto creativo. È la modestia, prima di tutte, di chi sa di poter raggiungere il proprio scopo solo partendo dall’operare, dall’imparare continuo e dal “fare”. Ottenere il nuovo attraverso il raccogliere, il  confrontare, il trasformare materie e forme.

Cose appese, appoggiate, accumulate, accostate, prove si sommano a prove. I tentativi a volte attendono nell’ombra e nella polvere. Ceppi di legno presentano sbozzate sembianze in attesa, a lungo, del momento di venire alla luce, nella metamorfosi faticosa che le farà uscire dal bozzolo duro di legno.

Figure ammiccanti con malizia e figure dormienti, serene o corrugate, leziose alcune, altre, divinità, eroi ed eroine, paiono nate per celebrare l’atto della danza e le sue movenze classiche. Alcune sembrano specchio riflesso del volto di Flavia, si leggono in altri volti i tratti di persone sempre viste e già familiari, tanto che Flavia non ha bisogno di presentarcele, ce le indica, ce le spolvera un po’, le fa scendere dallo scaffale, le separa dalle altre ammonticchiate e sovrapposte come le “coppie” di pane nel laboratorio del fornaio. Ce le porge perché possiamo toccarle come lei le tocca, accarezzandole, quasi senza guardarle: le conosce, tutte, anche se sepolte tra oggetti, forme, arnesi, ricordi.

E tutto, a questo punto, prende luce e dolcezza di morbide curve, come quando, sui cumuli disordinati di rami e foglie secche di un vecchio giardino, cade la neve.

 

 Lucia Boni

2012          

 

 

 

Non l’ho definita di proposito né come scultrice né come pittrice, perché è attiva in molti territori di frontiera. E’ una giovane e gradevole signora, che però è ormai sul punto di celebrare le sue nozze d’argento con l’arte. Il suo rapporto è iniziato da una pulsione di base: scolpire ed intagliare il legno, sia a fini propriamente artistici, che per ottenere risultati di alta decorazione e artigianato evoluto. E’ però donna di grande versatilità: si è cimentata con quasi tutti i modi possibili di esprimersi, dai pastelli, alle incisioni, alle fotografie.

Ha raggiunto un momento di sintesi in un ossimoro apparente: la rappresentazione del corpo femminile proiettato nel momento di elevazione della danza classica, non più come scultura, ma come silhouette, che, dalla superficie circoscritta di una lastrina di vetro, ha un anelito, quasi un dialogo, col cielo. E’ un cielo nel quale si stagliano opulente lune piene, che a loro volta contengono un’immagine di donna rannicchiata in posizione fetale. Come ci ha insegnato Leopardi, la luna, pur così vicina, è già un mistero cosmico. Lo voglia o no l’autrice, questa doppia presenza femminile, sia in terra che nel cielo, ha molto di simbolico, di inespresso, di dolcemente inquietante. Lascia aperto quantomeno l’interrogativo se dalla terra si possa ascendere al cielo attraverso l’arte, e si possano intravedere i poli di un ciclo vita-morte-reincarnazione.. Forse questo pensiero è più affine a chi scrive che non all’autrice, e me ne scuso pirandellianamente: cosi è si vi pare. Tornando a Flavia, ritengo che questo particolare momento, anche se magari in seguito verrà abbandonato, sia qualcosa di intrinseco alla sua sensibilità, così femminile e vigorosa allo stesso tempo.

 

Stefano Stevoli

 Recensione della mostra: "En l'air. Corpi sospesi " – Galleria la Carmelina - Ferrara -2007

 

 

 

 

 

L'artista ferrarese propone una serie di opere di periodi diversi a sottolineare un filo rosso di continuità nella ricerca che da anni sta compiendo. Pittura. scenografia, decorazione e scultura danno vita ad un territorio in cui diventa possibile movimentare ed esaltare le forme delle figure che si iscrivono nella magia del cerchio, vero motivo conduttore. La scultura rotante della divinità egizia Hathor, che accoglie il visitatore, diventa così emblematica della periodicità del movimento del sole e del flusso della vita.

Nell'introduzione al catalogo Carlo Bassi sottolinea come sia "costantemente al centro come oggetto a reazione poetica il corpo femminile". Il fascino della femminilità è indagato in tutte le possibili variabili archetipiche.

Vengono realizzate delle figure volanti, delle divinità lunari, delle varianti assiro-babilonesi di divinità greche. Quello che affascina maggiormente però e il gioco sapiente del trattamento della materia e del colore.

 Le iridescenze delle cromie sono appena accennate, tanto da svelare sempre la trama della materia sottostante. I legni di cirmolo, di tiglio, i rialzi di scagliola, sono impreziositi da velature leggere, di quel tanto che basta a far cantare i toni ed a creare un effetto di indomabile vitalità.

 

Gianni Cerioli

Recensione della mostra: “Come Mandala Segreti Danzanti" - Galleria del Carbone - 2004

 

 

 

 

Se non fosse per la freschezza e la spontaneità con cui Flavia Franceschini ti incanta quando descrive e ti illustra le 'cose ' che ha fatto o che sta facendo per cui ti diverti ad ascoltarla e ogni 'cosa seria' che ti mostra diventa pretesto per ricordi, letture, musiche e , alla fine, per un sorriso; se non fosse per questa gioia leggera che accarezza ogni sua opera e toglie peso alla sua consistenza fisica trasformando tutto in forme fluenti, volanti che alludono e giocano con ombre e con cerchi magici e si muovono su sogni bianchi di deserti e di marine; se non fosse per tutto questo che sollecita ad un attento e raffinato godimento intellettuale al di là di ogni storia o stile o ideologia; se non fosse per tutto questo, dicevo, il complesso di questa ultima fase del suo lavoro dovrebbe avere un ben altro codice di lettura una ben concreta collocazione storica nel panorama della cultura figurativa degli artisti di questi anni a Ferrara.

Infatti tutto pare essere un avvenimento anomalo rispetto alla temperie corrente pittorico-scultorea che le mostre celebrano e vanno proponendoci.

È anomalo perché non il risultato di elaborazione di una qualche avanguardia come succede sovente, ma il proseguimento leggero, felice, disincantato di modi e di immagini che costellano i soffitti e le pareti di certi palazzi ferraresi sconosciuti ai più, dovuti alla mano di maestri come Felice Giani o Giuseppe Santi, maestri giacobini, come li definisce Claudio Savonuzzi nel suo bellissimo 'Ottocento ferrarese', con ascendenze francesizzanti.

Una eleganza formale in queste opere quasi settecentesca dunque, che si collega e si salda con il 'culto della linea' dell'Art Nouveau.

Sembrano risuonare in queste opere parole come "la bellezza di una linea curva è tanto maggiore quanto complesse paiono essere le sue origini" o " ci deve essere una continuità piena di grazia tra una curva e quella successiva" un gioco di fluenze, dunque, flessibili ed energiche che interpretano e definiscono la forma. Queste parole le ha scritte all'inizio del '900 Christopher Dresser teorico e studioso del Simbolismo.

E queste fluenze alla fine si compongono in cerchi che traggono dal Mandala (una delle simbologie forti del pensiero orientale) il senso di dove nasce il tutto e dal movimento rotante dei Dervisci danzanti l'accezione sacra alla unione con l'infinito divino. Costantemente al centro come oggetto a reazione poetica il corpo femminile che si pone come provocatore di queste fluenze e diventa il paradigma della vita.

Se non fosse per la 'leggerezza' (nell’accezione di Italo Calvino) e per il sorriso con cui Flavia Franceschini accompagna queste opere che ci tolgono ogni soggezione e ci invitano ad un sottile divertimento, sarebbe il caso di dedicare ad esse un'attenzione critica attenta e sapiente.

Ma intanto cominciamo a godercele.

 

Carlo Bassi

Catalogo della mostra: “Come Mandala Segreti Danzanti”- 2004

 

 

 

 

"Flavia Franceschini, con il suo ERLINDA E CIVOLANI, attraverso una tecnica mista preserva la suggestione delle campagne, in una invenzione gustosa e ironica che ripercorre le esperienze delle avanguardie degli anni sessanta."

 

Vittorio Sgarbi

 Catalogo del Premio G. Cattabriga – Bondeno (Fe)  -1985

 

 

 

 

"L'ammirazione e gli echi stilistici sembrano coniugare curiosamente Iacopo della Quercia a Desiderio da Settignano, Attardi a Perez, il plasticismo dei Michelangioleschi alle silhouettes di Ceroli......ed è davvero curioso osservare quest'esile ragazza bionda, con un fisico da angelo preraffaellita, muoversi con navigata abilità tra seghe e mazzuoli, degna di uno scalpellino montanaro, mentre esegue raffinate figure femminili che assai spesso evocano i suoi lineamenti.

Il mito di Pigmalione si mescola, così, a quello di Narciso: entrambi sono, poi, corretti dallo stupore di Alice nel Paese delle meraviglie."

 

Lucio Scardino

Articolo su "La Piazza" -1985

 

 

 

 

"I temi mitologici e fantastici attraversano l'arte di Franceschini, che sa creare soluzioni estetiche inattese e poetiche. La sintesi della forma raggiunge l'equilibrio perfetto tra essenza e dettaglio, tra struttura e materia, piegando la pesantezza e la consistenza del legno all'illusione della leggerezza senza tempo del mondo fiabesco."

 

Paola Mingozzi

 Recensione della mostra "Grenzpunkt, l’effimero confine dell’arte" - Ferrara - 1990

 

 

 

 

"Le sue statue, essenziali e sognanti, quasi sempre di ispirazione onirica o mitologica, rappresentano spesso figure femminili,dee alate e lune che si librano nello spazio...."

 

Margherita Rovina

Da articolo su "La nuova Ferrara" - 1991


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"En-pathos" -  elaborazione grafica, lucido e plexiglass, cm.100x42



                                                                               

 http://insideart.eu/2014/06/11/una-mostra-alla-cameda-dei-deputati-per-ricordare-enrico-berlinguer/
















Tg3 Piemonte sulla Mostra a Torino, al minuto 16


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“E’ una storia ancora tutta da fissare quella di Ferrara, che vedeva ambulare per le sue strade rossettiane talenti di stregonesca inventiva (…) fatta di sogni ad occhi aperti.”
G.A. Cibotto



        
          


                                         Flavia Franceschini  e  Paolo Volta portano a Ca’ Cornera  
                                         un  omaggio a Ferrara
   

a cura di Laura Gavioli
Inaugurazione domenica 18 maggio, ore 17,30

Interviene  Riccardo  Rimondi   autore del volume : Estensi – storia e leggende, di una dinastia millenaria”


Questa mostra si muove  sulle tracce di Gian Antonio Cibotto, poeta e narratore a noi caro, per divenire un omaggio a Ferrara “città delle sorprese”.
L’esposizione, a cura di Laura Gavioli, mette in evidenza attraverso le opere di Flavia Franceschini e Paolo Volta, entrambi ferraresi, la matrice ‘fantastica’ della loro ricerca, determinata da una     effettiva appartenenza a questa città e ai suoi luoghi.
L’elemento comune di questi artisti fa riferimento a una interpretazione della realtà che va ben oltre la percezione visiva, per addentrarsi negli spazi dell’invenzione, del sogno e della fantasia.
Una Ferrara di oggi raccontata con opere mai esposte fino ad ora al pubblico.
A coglierci, appena entrati, è una emozione inaspettata. Paesaggi sospesi tra il reale e il visionario, creature mitiche a metà tra ninfe e sirene, architetture che si fanno teatro di stranianti giochi spaziali, citazioni letterarie e anche cinematografiche, lontane memorie trasformate in forme fantasiose.








18 Maggio – 20 luglio 2014
Ca’ Cornera, Stazione di sosta nel delta del Po
Località Ca’ Cornera, 3 – Porto Viro
ingresso libero – info: tel. 0426 325457 – 348 7157940
www.cacorneradeltapo.it








                             Flavia Franceschini e Paolo Volta
                             portano a Cà Cornera
                             un omaggio a Ferrara 



Tutti sappiamo guardare un paesaggio, ma la domanda è: per vedere che cosa?

Paolo Volta guarda con occhio professionale, da
maestro d'arte, coinvolto dalla natura, ma subito incuriosito dai segni importanti che la natura e gli edifici impongono alla nostra valutazione. Lui, uomo di architettura e di arte, registra il senso misterioso dei vecchi complessi industriali dando vita a disegni e dipinti originali dove il colore prende il sopravvento e si impone per qualità e per timbro recuperando alla fine un'immagine stagliata e definitiva, ma perfetta nel restituire all'osservatore una visione nel senso più ampio del termine, cioè una solitudine delle forme essenziali che ci colpisce e ci ricollega all'esperienza metafisica. Paolo ha conosciuto direttamente il fascino della realtà sospesa, non solo come fenomeno naturale delle magiche nebbie d'Autunno, ma crescendo da bambino in familiarità con il pittore Antenore Magri, sensibile ultimo maestro delle apparizioni metafisiche ferraresi.
Al suo occhio per l'architettura non sfugge la bellezza semplice delle case di
Via Borgo di Sotto o di Via del Carbone, e gli elementi architettonici, come le paraste o lesene, che scandiscono gli angoli dei palazzi tra due vie, così come la solenne architettura dei fienili, delle vecchie fabbriche e dei dismessi edifici industriali che tanto qualificano la nostra campagna piatta. Particolarmente suggestivo lo scorcio notturno di Via Zemola, sempre inseguendo siti se
greti e defilati... 








                                       
      


                              recensione mostra :  










 




Flavia Franceschini muove la sua ricerca sulle orme di Borso d'Este (1413-1471), duca di Modena, Reggio e Ferrara, nonché conte di Rovigo, del quale l'anno scorso non si è celebrato il sesto centenario dalla nascita.
Nel 1469 Borso commissionò per il Palazzo Schifanoia, finalmente completato, il famoso ciclo di affreschi del Salone dei Mesi, stimolo continuo alla creatività di Flavia che sente il richiamo immaginifico del contesto evocato dalle bellissime pitture e lascia emergere il suo talento per la scenografia creando una rievocazione plastica delle scene relative al corteo ducale a cavallo e ad altri momenti della piacevole vita di corte. Il rilievo dei fondali è molto sottile, quasi bianco, modellato con leggeri interventi della mano. L'accostamento delle parti è suggestivo e può creare nell'osservatore uno straniamento capace di rammentare quell'incertezza del tempo e dell'ora che è il riferimento fisico, atmosferico, oltre che letterario ed artistico, di Ferrara. Il fascino di una realtà immersa nel mito è particolarmente importante per l'artista che ha scolpito una grande scultura in legno e una serie di piccoli lavori che richiamano la magia del Po e delle sue fantastiche figure femminili cantate dai poeti: Vaghe Ninfe del Po, Ninfe sorelle, ... (T. Tasso, Canzone XXX).

Il lavoro di Flavia è complesso; ma non può sfuggire all'attenzione di chi l'osserva il valore che lei dedica alla fotografia. L'occasione è venuta dalle celebrazioni per il centenario della nascita di Michelangelo Antonioni: bisogna guardare con attenzione le tre fotografie in mostra che concentrano con notevole intensità la poetica del grandissimo artista.

 Laura Gavioli 

 Maggio 2014


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